L’addio negato
di Barbara Felisio. Psicologa – Psicoterapeuta
Lieve è il dolore che parla. Il grande è muto (Seneca)
Riassunto
La pandemia da coronavirus ha stravolto la nostra esistenza ponendoci di fronte a sofferenze e privazioni inimmaginabili, ma proprio ciò che ci è stato sottratto acquista un valore inestimabile. La possibilità di accompagnare i propri cari nell’esperienza tragica della malattia e di porger loro l’ultimo saluto, quando purtroppo il decorso dell’infezione si rivela nefasto, in tempo di pandemia è brutalmente negato, seppur necessario ai fini del contenimento del contagio. L’esperienza della malattia e della morte, dunque, sono svestite della loro umanità, morire in solitudine e’ un’esperienza atroce così come atroce è la distanza che i cari del malato devono rispettare al di là della loro volontà. E come se non bastasse i congiunti non possono neanche avvalersi del rito funebre ovvero di quel rito di passaggio (Von Gennep) che consente loro di porgere l’ultimo saluto al defunto e di consegnarlo ad un mondo altro, passo necessario per avviare un percorso di lenta e dolorosa separazione. Nel seguente articolo mi soffermo sull’importanza di due costanti antropologiche: l’accompagnamento alla morte e il culto dei defunti, la cui pratica, quando negata, disumanizza l’evento della morte ed ostacola il normale percorso di elaborazione del lutto.
Parole chiave: antropologia, psicologia, società, rito funebre, rito di passaggio, lutto.
Dolenti e numerosissime sono le perdite e le angosce a cui la violenta pandemia ci ha esposto lasciandoci “nudi”, in balia della nostra vulnerabilità più profonda. Paure ancestrali riaffiorano e ci catturano: il buio, la notte, l’esser “gettato” e l’esser solo in questo mondo ostile, il terrore della morte abitano le nostre cupe giornate. Il mito della società progredita che protegge onnipotentemente dalle malattie e dalla morte si è rivelato in un attimo in tutta la sua fallacia ed evanescenza, ponendoci brutalmente di fronte alla misera finitudine della natura umana. Catapultati prepotentemente nell’universo dell’incertezza, facciamo i conti con la difficoltà di muoverci agevolmente in essa, poiché alimenta sentimenti di impotenza, di disorientamento e confusione. Sono state troppe le certezze divelte in brevissimo tempo, troppe le morti a cui assistere sgomenti. La morte è la grande protagonista di questo asfissiante scenario, domina, strazia e lacera i cuori di chi va e di chi resta. La tragica realta’ è che ai tempi del coronavirus, a causa delle stringenti regole imposte, giustamente per contenere la diffusione del contagio, si soffre e si muore da soli, senza il conforto dei propri cari, senza che questi possano tenere la mano del morente nel momento del trapasso. L’unico saluto fugace, quando possibile, è quello che ci si scambia nel momento in cui i familiari consegnano il proprio congiunto ai sanitari che lo prelevano e lo conducono in ospedale al fine di offrirgli le cure necessarie. Il vissuto della famiglia, è quello di una violazione del proprio legame, di uno “strappo” affettivo tagliente, di una lesione della sacralità dell’intimità.
Di qui in poi i contatti tra il malato e i suoi congiunti saranno mediati dagli operatori sanitari. In un tempo in cui l’attenzione prestata dai tanatologi proprio a rendere la sofferenza ed il trapasso il più umano possibile, attraverso l’accompagnamento psicologico e il non accanimento nelle cure, il coronavirus stravolge impietosamente questo paradigma privando il morente della vicinanza amorevole dei propri cari e affidandolo ad un un accanito attaccamento ai ventilatori polmonari che però si rivela necessario in quanto potenzialmente vitale. Di qui in poi il corpo, silenziato nella sua soggettività, inizia la sua grande battaglia. Il corpo in tempo di covid è invaso perchè abitato dal virus, distanziato ovvero sbalzato fuori dalla relazione con l’altro, respinto, espulso da essa che invece è la sua casa, è anestetizzato per tener testa alla paura che lo frammenta, è esagitato perché insofferente all’isolamento, è disumanizzato ed alieno, è balbettante perché “mascherato” e dunque depotenziato nella sua capacità dialogica affidata solo allo sguardo di ciascuno che costantemente rivela prevalentemente diffidenza e smarrimento. E’ un corpo quasi robotico eppur stremato perchè soccorre continuamente corpi agonizzanti ed infine è cadavere, ma cadavere assente. Trattasi di un’assenza tutt’altro che silenziosa, essa è emotivamente assordante per i congiunti ai quali il corpo del deceduto non viene mostrato per rivolgergli l’ultimo saluto né gli viene affidato perché possano scegliere per il loro caro un’umana e degna sepoltura.
Il corpo è dunque reificato, mortificato nella sua soggettività, privato del suo nome, della sua storia. Al dolore struggente della perdita e al senso di vuoto angosciante che la morte di una persona cara porta sempre con sé, si aggiunge, in tal caso, la sofferenza per un addio negato e per un rito funebre non concesso. Morire ai tempi del coronavirus è disumano, indubbiamente comprensibile, ma insopportabile emotivamente.
“Se il figlio di mia madre, dopo la sua morte, avessi lasciato insepolto cadavere, di tale fatto avrei sofferto:di questo invece non soffro”.(Antigone. Sofocle) Cosi recita Antigone, che rivendicando per il fratello, Polinice, degna sepoltura ed avendola ottenuta, si dichiara in pace con se stessa pur sapendo che il suo ardire sarà punito da Creonte, re di Tebe, con la reclusione in una grotta per il resto dei suoi giorni.
Ciò ci mostra l’importanza, la sacralità del rito funebre, indispensabile per sancire il passaggio nell’altrove, nell’ aldilà (per i credenti) e a mitigare lo sconforto in cui versano i cuori afflitti dei congiunti che, solo avendo onorato il proprio caro con una cerimonia religiosa/spirituale, possono consegnarlo in un mondo altro e cominciare il lento e doloroso percorso di distacco. In caso contrario, così come sta avvenendo in questo tempo amaro, anche la gestione del lutto, individuale e collettivo, sara’ assai complicata poiché l’assenza del corpo e della cerimonia funebre rinforzano il vissuto di negazione e dunque impediscono il passaggio alle fasi successive che implicano il riconoscimento dell’accaduto e la lenta elaborazione della perdita. Inoltre l’impossibilità di celebrare il funerale non consente il riconoscimento della sofferenza del congiunto per il lutto avvenuto, il che lo spinge a vivere in una solitudine assai profonda.
La pandemia da coronavirus, dunque, ci obbliga a rinunciare a due momenti che sono costitutivi della civiltà umana: l’accompagnamento alla morte e il rito funebre. La civiltà inizia con la sepoltura dei cadaveri, che è indice della fiducia in una vita ultraterrena e proprio quando l’uomo ha cominciato a seppellire i morti, nacquero la religione e le divinità segno della credenza in un’aldilà. La pratica della sepoltura e del culto dei defunti risale all’ uomo di Neanderthal, gli archeologi infatti hanno trovato, in Medio Oriente, la prima tomba ascrivibile a quest’epoca e hanno ritrovato anche tracce testimonianti la celebrazione di una cerimonia funebre.
In tutte le culture il mondo dei vivi e quello dei morti sono mondi separati e tali devono restare, ma il passaggio del defunto nell’ altrove o aldilà, a secondo del proprio credo, deve essere sancito da un transito che simbolicamente è espresso da un rito di passaggio (Von Gennep). In epoca romana ai morti veniva posta in bocca una moneta affinchè fosse consegnata a Caronte perché li traghettasse nell’Ade.
Prima della pratica della sepoltura i morti erano abbandonati, come gli animali, o morivano appartati, insomma con la sepoltura ed il rito funebre all’individuo viene conferita la dignità di persona. Per tale motivo le pestilenze e ora la pandemia da coronavirus, cause in grado di sospendere per un tempo più o meno lungo queste pratiche, sconvolgono le società, perché recidono bruscamente ciò che da millenni ci restituisce la nostra umanità.
L’accompagnamento alla morte e il culto dei defunti sono dunque costanti antropologiche inviolabili in quanto necessarie al fine di umanizzare e render mansueta la morte, che seppur evento naturale, resta umanamente temuta e priva di senso. Purtroppo la pandemia le nega entrambe e ciò non è antropologicamente sano in quanto la socializzazione del lutto, attraverso il rito funebre, che permette l’addio e la vicinanza del gruppo di parenti ed amici nei giorni che seguono all’estremo saluto del defunto e che rende possibile la condivisione del dolore, consente una maggiore possibilità di sopportare il peso angosciante della perdita.
Le ovvie conseguenze di quanto esposto saranno una serie di lutti difficili, talvolta inelaborabili, e di sicuro, a mio parere, mai accettabili. La comunità umana si ritroverà ad affrontare la ferita di un lutto mutilato, di qui emerge la necessità ed il dovere della collettività di pensare alla creazione di rituali di commiato collettivo, al fine di condividere la tragica sofferenza a cui questa esperienza traumatica ci ha consegnato. Ogni trauma sia esso individuale che collettivo necessita di spazi relazionali e simbolici in cui essere narrato al fine di rendere più pensabile ed emotivamente sostenibile il vissuto ingovernabile che esso genera.
Un primo rituale di commiato spontaneo a cui abbiamo assistito in questi tragici giorni è senz’altro la presenza dei cittadini di Bergamo affacciati alle finestre per salutare le salme trasportate dai camion militari. A questo dovranno seguirne molti altri, di natura istituzionale e privata, affinchè l’addio negato ai propri cari possa, seppur simbolicamente, esser recuperato cosicchè il dolore struggente per il saluto mancato possa trasformarsi in un dolore narrabile a se stessi e agli altri e possa restituire “esistenza” e dignità a coloro che se ne sono andati sparendo come fantasmi.
Summary
The coronavirus pandemic has overturned our existence by confronting us with unimaginable suffering and deprivation, but precisely what has been stolen from us acquires invaluable value. The possibility of accompanying loved ones in the tragic experience of the disease and to offer them the last farewell, when unfortunately the course of the infection turns out to be nefarious, in time of pandemic it is brutally denied, albeit necessary for the purpose of containing the infection. The experience of illness and death, therefore, are stripped of their humanity, dying in solitude is an atrocious experience just as atrocious is the distance that the loved ones of the sick person must respect beyond their will. And to make matters worse, the relatives cannot even make use of the funeral rite or of that rite of passage (Von Gennep) that allows them to offer the last farewell to the deceased and to deliver him to another world, a necessary step to start a path of slow and painful separation. In the following article, I focus on the importance of two anthropological constants: the accompaniment to death and the cult of the dead, whose practice, when denied, dehumanizes the event of death and hinders the normal path of mourning.
Keywords: anthropology, psychology, society, funeral, rite of passage, mourning,